E-mail personali e concorrenza sleale: la Corte di Cassazione fissa i limiti al potere di controllo del datore di lavoro
Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (la n. 24204/2025 del 29 agosto 2025) interviene su un tema di cruciale importanza, chiedendosi fino a che punto un datore di lavoro possa spingersi per difendere i propri interessi da atti di concorrenza sleale. La risposta della Suprema Corte è netta e ribadisce la preminenza del diritto alla privacy del lavoratore.

Mary Cassatt, La lettera (1890-1891)
La vicenda giudiziaria ha origine dall'azione di una società che accusava alcuni suoi ex dipendenti di aver posto in essere atti di concorrenza sleale. A fondamento delle proprie accuse, l'azienda aveva prodotto in giudizio delle comunicazioni e-mail acquisite dagli account personali degli ex collaboratori, sostenendo che, essendo transitate o archiviate sui server aziendali, potessero essere legittimamente utilizzate come prova. Sebbene il Tribunale avesse inizialmente accolto in parte tali ragioni, la Corte d'Appello aveva successivamente ribaltato la decisione, dichiarando le prove informatiche inutilizzabili.
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha rigettato definitivamente il ricorso della società, confermando l'inutilizzabilità delle prove raccolte. La Suprema Corte ha stabilito che l'accesso da parte del datore di lavoro alla corrispondenza e-mail proveniente da account personali è illegittimo, anche qualora questa si trovi sui dispositivi o sui server aziendali.
Il principio chiave è che un account di posta elettronica privato, protetto da una password personale, costituisce una forma di corrispondenza la cui segretezza è tutelata a livello costituzionale e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. Qualsiasi ingerenza del datore di lavoro, anche se motivata dal sospetto di un illecito, è vietata se avviene senza l'autorizzazione del titolare e in violazione delle normative sulla privacy e dello Statuto dei Lavoratori.
La Corte ha infatti sottolineato che il monitoraggio delle comunicazioni dei dipendenti deve sempre rispettare criteri rigorosi. Innanzitutto, i lavoratori devono essere chiaramente e preventivamente informati sulla possibilità che vengano effettuati controlli e sulle loro modalità. Inoltre, i controlli non possono essere massivi e indiscriminati, ma devono essere proporzionati, ovvero mirati e giustificati da esigenze specifiche e legittime. Infine, è indispensabile il pieno rispetto delle garanzie procedurali previste dallo Statuto dei Lavoratori. L'acquisizione di prove in violazione di questi principi le rende, di conseguenza, inutilizzabili in un procedimento giudiziario.
Questa sentenza non rappresenta una rivoluzione, ma la conferma di un orientamento giuridico consolidato che bilancia la tutela del patrimonio aziendale con i diritti fondamentali della persona. Le implicazioni pratiche sono chiare. Per i datori di lavoro, è fondamentale abbandonare l'idea di poter "frugare" liberamente negli strumenti informatici, anche se di proprietà aziendale. La difesa contro la concorrenza sleale deve avvenire con mezzi leciti, come la redazione di solidi patti di non concorrenza e l'adozione di policy aziendali trasparenti. Per i lavoratori, invece, viene riaffermato con forza il diritto alla riservatezza della corrispondenza privata, anche sul luogo di lavoro. Il semplice utilizzo di un PC aziendale per accedere a un account e-mail personale non concede al datore di lavoro una "licenza di spiare".
In conclusione, la Suprema Corte invia un messaggio inequivocabile: la protezione degli interessi aziendali è legittima, ma non può mai avvenire a discapito della dignità e della privacy dei lavoratori. Le aziende sono chiamate a un approccio più rigoroso e rispettoso delle normative, investendo in prevenzione e policy chiare piuttosto che in controlli postumi e invasivi, i cui risultati rischierebbero di essere giuridicamente inutili.